Premessa
L'articolo sul Gragnano, col quale oggi inizia una nuova forma di collaborazione con Tigulliovino, rappresenta per me la prima frase di un discorso, la prima tappa di un itinerario attraverso i vini del Sud. La scelta di iniziare proprio da questo vino nostrano non è affidata al caso, perchè al contrario rispecchia il "mio sano ma critico tifo partenopeo" (eufemismo per nascondere in realtà la mia faziosità, una forma innata e irrinunciabile di campanilismo), il mio entusiasmo per le cose buone fatte in casa. E' questo l'aspetto caratterizzante la mia passione per il vino, la mia personale filosofia, secondo cui prima di guardare lontano è necessario conoscere bene il proprio orto, dove spesso si nascondono veri e propri tesori. Ciò che sostengo per il "vino di casa", in parallelo è applicabile a tutti i grandi capolavori d'Italia: prima di osannare gli Chateaux d'Iquem o i premiers cru bordolesi e prima di tuffarci a capofitto sui nuovi californiani, sudafricani e cileni, non dimentichiamo di portare sulle nostre tavole i grandi vini made in Italy! E, vi prego, lungo il percorso di ricerca di un gusto sicuramente "nostro" cominciamo dal buon Chianti, dalla Barbera, dal Frascati e dal Lambrusco!
Dici Gragnano e dici pasta. Pensi immediatamente a quelle candele lisce e dure da spezzare con le mani o a quei bei paccheri rugosi e compatti intrisi di fumante ragù napoletano...Quasi sempre nell'immaginario comune, soprattutto fuori dai confini campani, la parola Gragnano si associa alla storia della pasta, ai cento opifici storici. Per chi non è del posto invece, questo luogo, questo paese adagiato sulla cerniera dei primi Monti Lattari, stretto tra il mare del Golfo di Napoli e la costiera sorrentina, raramente può evocare la parola vino. Eppure quando si parla di Gragnano si parla di un vino la cui origine si perde nella notte dei tempi, che con diverse definizioni veniva citato già da Plinio, Galeno, Strabone e Columella. Il vino di Gragnano veniva prodotto poi, proprio così com'è oggi, dai monaci oltre millecinquecento anni fa. Durante il medioevo, la tradizione della coltivazione della vite, proprio per far fronte alle richieste crescenti di questo vino che tanto piaceva al clero ed alla nobiltà, dovette addirittura essere intensificata a vantaggio dei numerosi cenobi del territorio. Tanto più si faceva uso del Gragnano quanto più si era convinti anche della sua leggerezza e dei suoi effetti salutari: "si vis vivere sanum bibe Gragnanum", se vuoi vivere bene bevi Gragnano, recita un detto del '600.
Era un vino talmente ambito da diventare ben presto sinonimo dell'eccellenza di tutto il vino del territorio. Così il Gigante nel 1845: "Il vino di Gragnano, per antonomasia dette il nome a tutti i vini del napoletano, sicché bastava dir Gragnano per intendere un vino fragrante, limpido, abboccato, vocabolo che significa dolce e di vitigno, non artificiale. Che il vino di Gragnano si deve grandemente pregiare, perché è di color granato, chiaro, odoroso e te ne puoi bere due bocce senza tornare a casa ubriaco, che non vi era cantina a Napoli dove non trovasi il Gragnano". Se ci soffermiamo sulle parole del Gigante, non possono non sorprenderci due considerazioni: una in ordine all'innegabile differenza delle caratteristiche organolettiche che doveva avere questo progenitore rispetto al vino attuale, e un'altra in ordine all'intuibile prassi, più che diffusa in quell'epoca, degli interventi di cantina (vino di vitigno, non artificiale...)
Dopo averlo provato, ne divenne un gran estimatore anche Mario Soldati, che ne scrisse tante pagine appassionate, per concludere che il Gragnano è un vino letterario, e cioè irreale. Ma la storia, al contrario, dimostra come il Gragnano sia stato un vino più che reale, in certo senso anzi concreto, uno di quei pochi vini dagli effetti "trasversali", capace di accomunare e di avvicinare nell'allegria della sua beva braccianti e committenti, Borboni e "lazzari", miseria e nobiltà. E, a proposito di "Miseria e Nobiltà", il Gragnano non poteva non essere il vino protagonista del celebre capolavoro scarpettiano: "solo se è Gragnano - così viene ammonito Pasquale da Felice Sciosciammocca - lo prendi, sennò desisti...". E per scoprire se il vino è un Gragnano, questo dovrà obbligatoriamente pizzicare al palato...
E così, tanto copiose sono la storia e la letteratura sul Gragnano, che di questo vino potrei continuare a dissertare ancora a lungo, raccontandone tanti altri aneddoti e curiosità, ma oggi preferisco invece soffermarmi su di un altro aspetto, strettamente legato al passato e alle tradizioni di questo vino. Più precisamente, vorrei poter trovare risposta ad una domanda: perchè questo vino frizzantino e allegro, che innegabilmente piace a tutti, gradevole da bere in ogni stagione e in ogni circostanza, oggi è relegato a ruoli secondari? Perché non si trova quasi mai nelle carte dei vini e, soprattutto, perché durante cene cd "ufficiali", durante convivi e cerimonie, il buon Gragnano non figura mai?
Vino semplice, senza pretese, il Gragnano...questo il ritornello che accompagna la sua fama attuale. Talmente semplice da essere snobbato e relegato al rango di vinello minore, non più degno di poter ancora rappresentare la produzione di qualità di una regione che oggi assume a proprio vessillo la trilogia Taurasi, Greco di Tufo e Fiano di Avellino. Ai più non sembra neanche all'altezza, questo sventurato, di allignarsi assieme ai rampanti vini delle Costiere, e neanche al fianco dei riscoperti grandi del passato del casertano - Falerno in primis - o magari di trovare spazio tra le fila degli ambiziosi vini da reimpianto del nuovo Sannio o ancora di essere annoverato assieme alle eterne promesse del Cilento. Macché...troppo modesto, questo figlio di Bacco!! Meglio non parlarne affatto...
La verità, la risposta a queste amletiche inquietudini, è assai lontana dall'affermata impresentabilità di questo ottimo - ribadisco ottimo - vino, dalla sua (solo) presunta semplicità e passa invece, ed ancora una volta, per ragioni di opportunità commerciale e di costume. Sul primo versante, infatti, va rilevato che una bottiglia di Gragnano, di buona fattura, mediamente non può costare oltre i 4/5 euro, con margini di guadagno assai ristretti per produttori e commercianti. Circa il secondo motivo va detto invece che l'approccio al vino, da parte del consumatore moderno, è fin troppo condizionato più dalla moda che dal gusto personale. E non vi è dubbio che la moda, a sua volta, è governata dalle prescrizioni imperanti dei grandi distributori, emuli ed accoliti dei Signori del vino (non dimentichiamo il film documentario Mondovino); e questa moda spinge e condiziona sempre più nella direzione di vini strutturati, elaborati, pregni di ogni odore, di lunga maturazione. Chi, tra questi burattinai, vorrebbe mai forgiare nuove generazioni di consumatori col gusto base del Gragnano o del Lambrusco? Del resto, come lo stesso Soldati ricordava, il Gragnano, pur essendo un "lambrusco di più corpo", così come quel vino appartiene ai ranghi di quelli che "i francesi chiamano petits vins, piccoli vini, non ai vini classici da arrosto e da invecchiamento". E se lo dicono i francesi...
Ecco, ho detto Lambrusco e la mia mente va all'inevitabile parentela di sapori col vino emiliano, e qui la domanda che mi pongo riguarda la diversa fama e la diversa affermazione delle due tipologie sul mercato. Perché il Lambrusco sa difendersi - anzi valorizzarsi e specificarsi, se solo pensiamo alle quattro tipologie esistenti, compresa l'ex doc lambrusco reggiano - e, sopratutto, va sempre forte sugli scaffali e il Gragnano invece no? La risposta sta, ancora una volta, nei tempi di reazione dell'imprenditore locale, che solo di recente ha compreso le potenzialità del prodotto e solo da una quindicina di anni ha deciso di vinificare secondo regola, imbottigliare ed etichettare questo prodotto, per farne finalmente un vino serio.
Fino ad allora il Gragnano, o meglio ciò che si soleva spacciare per tale, era un vino di dubbia provenienza, contenuto in un'anonima bottiglia che circolava indisturbata nelle vetrine dei peggiori alimentari e delle osterie da ubriachi, rigorosamente esposta al sole per tutta la giornata, priva di ogni etichetta e col tappo di plastica a vite ricoperto da ghiera di metallo ed etichetta volutamente incomprensibile. Quindi il Gragnano, questo famoso e sconosciuto vino di Napoli, è un antico ma giovanissimo vino che oggi muove ancora i primi passi, che solo da poco sta cercando formule di aggregazione, investimenti e sinergie tra produttori, come pure la creazione di un Consorzio, che risale al 1995 e che fa capo ad Aniello Iovine, enologo fra i maggiori produttori di Gragnano. Con Aniello perciò mi intrattengo a fare due chiacchiere sull'antico vino della Penisola Sorrentina.
"Il segreto del Gragnano? Sta innanzitutto nel microclima dei nostri vigneti, che rappresenta la vera differenza anche con il Lettere, un vino identico per tutto il resto, anche da disciplinare. L'esposizione dei vigneti destinati al Gragnano può contare sullo scudo del Monte Faito alle spalle, una montagna - la più alta della provincia di Napoli - che con i suoi 1440 metri di altezza svolge funzioni di termoregolazione, e sulla benefica protezione dalla brezza marina proveniente dal Golfo. Soprattutto nella zona più alta di Pimonte, intorno ai 4/500 metri, le escursioni termiche sono fortissime.
In termini enologici, si ottiene facilmente un buon grado di acidità delle uve, arrivando facilmente al ph 5,5 del disciplinare e determinando anche una notevole concentrazione di sostanze polifenoliche aromatiche. In particolare così gli antociani non vengono depauperati dal sole per stress idrico" "Inoltre con questo microclima - ricorda Iovine - anche nelle annate più calde le uve non si cuociono mai, ma rimangono croccanti". Crede talmente in un futuro di gloria per il Gragnano, Iovine, che mi racconta di un percorso, difficile ed appena iniziato, che potrebbe condurre un giorno al riconoscimento della DOCG. "Per ora è solo un'idea, ma è un'idea che affascina tanti e che già abbiamo condiviso con opportuni interlocutori in diversi incontri con l'Ispettorato Agrario del Ministero delle Politiche Agricole".
Circa il suo "stile" personale, Iovine è tra quelli che curano molto anche la morbidezza nel Gragnano, senza per questo privilegiare i toni abboccati, come fanno invece altri produttori, che seguendo una vecchia usanza aggiungono al vino porzioni di lambiccato, anche per aumentarne l'effervescenza. Il suo obiettivo a medio termine è la produzione di un Gragnano da rifermentazione in bottiglia. Già la scorsa annata ha effettuato una microvinificazione con circa cinquemila bottiglie, non commercializzate, e dalla prossima vendemmia conta di lavorare un terzo della produzione proprio con questo procedimento. "Per la nostra cantina la rifermentazione in bottiglia non è una novità, la facevamo già nel '94 - ricorda Iovine - Le uve da Gragnano si prestano particolarmente ad essere lavorate con questo metodo che ne incrementa profumi ed effervescenza, grazie alla migliore glicolisi ed allo sfruttamento delle fecce". E che questa non sia la chiave di volta? E già, perchè no, perchè non pensare al Gragnano del futuro come ad un dignitoso vino spumante, proprio come già stanno facendo alcune cantine emiliane col lambrusco? Così magari un giorno potremo entrare nelle migliori enoteche e scegliere tra un Gragnano brut o un demi-sec, un Gragnano charmat o un metodo classico, magari...millesimato!
Scherzi a parte, il Gragnano di Iovine è, secondo me, uno dei migliori prodotti in circolazione, un vino che coniuga alla perfezione le lusinghe dell'effervescenza ad una struttura importante, è consistente ma anche carezzevole, un Gragnano insomma che non è solo freschezza e pronta beva, ma che ti accompagna a lungo con i suoi profumi di frutta dapprima delicati e poi sempre più decisi e saporosi. L'equilibrio particolare lo rendono adatto ad ogni abbinamento, si presta egregiamente ad accompagnare tanto la provola affumicata quanto il salame di Napoli; questo Gragnano si sposa a meraviglia con i taralli "nzogna e pepe" e certamente non disdegna di essere servito con il capitone di Natale, ma vuoi provarlo poi con salsiccia e friarielli...
Altro ottimo Gragnano quello della cantina Grotta del Sole, azienda che insieme a quella di Iovine realizza oltre il 60 per cento del prodotto in circolazione. Leggermente più ruffiano, questo vino alterna sensazioni dure e sapide a passaggi dolci e ammiccanti. La spuma è abbastanza spessa e persistente; gli aromi freschi e fruttati, che si avvertono franchi e netti sin dall'inizio, nel retrogusto si arricchiscono anche di note floreali e muschiate. Tra i prodotti da prendere in considerazione aggiungerei, tra le aziende locali, quelli della Cantina Nasti, di Balestrieri, della Vinicola Gragnano e di Poggio delle Baccanti e, per quanto riguarda i "forestieri", il vino delle Cantine Caputo di Carinola, un esemplare di Gragnano assai brioso, fresco e fruttato.
Gragnano, Sorrento e Lettere rappresentano le tre sottozone in cui è suddivisa la D.O.C. Penisola Sorrentina. Può fregiarsi del nome Gragnano solo il vino rosso frizzante ottenuto da uve raccolte nei comuni di Gragnano, di Pimonte e nella parte collinare di Castellammare di Stabia. I vitigni indicati dal disciplinare per la produzione del Gragnano sono il piedirosso - localmente detto per' e palummo - nella misura minima del 40 per cento, l'aglianico e/o lo sciascinoso - che sul posto assume il nome di olivella - che devono concorrere minimo per un altro 20 per cento. Nel restante 40 per cento ampio spazio per gli altri vitigni ammessi per la provincia di Napoli. Tra questi, localmente sono abbastanza diffusi il tintore, la surbegna, la suppezza e la castagnara, mentre non vi è più traccia dell'estinto mangiaguerra, l'uva che si diceva fornisse struttura e colore al Gragnano. La resa per ettaro e la gradazione alcolica, rispetto alla denominazione base, per ottenere la sottodenominazione Gragnano subiscono ulteriori specificazioni: 90 quintali ad ettaro - rispetto ai 110 consentiti per la Penisola Sorrentina - e alcol minimo di 11 gradi anziché 10 come per la doc base.
I produttori attualmente sono circa una ventina, ma solo pochi hanno sede proprio nel circondario di Gragnano e Lettere, che sono poi le cantine che fanno del Gragnano il punto di forza della propria produzione. Le altre cantine, pur avendo sede in altri comuni della provincia di Napoli o addirittura in altre province - come accade per la casa vinicola Caputo - non disdegnano di affiancare alle altre linee produttive anche il Gragnano, come prodotto alternativo e complementare.
Questi i maggiori produttori di Gragnano:
Cantina Balestrieri - Gragnano; Cantine Russo 1951 - Boscotrecase; Cantina degli Astroni - Napoli; Cantina Borgo S. Anna - Lettere; De Falco - San Sebastiano; Nasti - Lettere; Grotta del Sole - Quarto; Iovine - Gragnano; Poggio delle Baccanti - Gragnano; Fioravante Romano - Ottaviano; Saviano 1760 - Ottaviano; Cantine Scala - Portici; Vinicola Fontanella/Gragnano - Gragnano; Il Nettare di Silla - Gragnano; Cantine Caputo - Carinaro (CE).
Ma come si ottiene il Gragnano, come si ottengono quelle belle bollicine e quella spuma densa e odorosa che, è vero, purtroppo spariranno ben presto dal bicchiere? Cominciamo col dire che il Gragnano rientra nella categoria dei vini frizzanti naturali. Come tale si distingue dallo spumante per la pressione atmosferica, che è solo di un'atmosfera e mezza contro le tre/tre e mezzo dello spumante; la dizione "naturale" poi, ci indica che la CO2 si sviluppa naturalmente in questo vino per effetto delle fermentazioni e non per insufflazione separata, come avviene per i vini ottenuti con macerazione carbonica, tipo il novello. Come si fa per tutti i vini spumanti, per conservare maggiore acidità le uve vengono vendemmiate con lieve anticipo, o quanto meno non oltre la corretta maturazione fenolica, evitando cioè ogni rischio di pericolosa surmaturazione.
La prima fermentazione dopo 7/8 giorni viene arrestata abbassando drasticamente la temperatura, fino a zero gradi, quindi si opera una chiarifica. Dopo un intervallo di 10 giorni il mosto limpido viene portato in autoclave dove, a venti gradi di temperatura, viene inserito un piede di mosto preparato ed arricchito con lieviti, in genere scelti tra quelli selezionati per base spumante. Qualche enologo, come Iovine appunto, preferisce utilizzare ceppi singoli diversi, come i lieviti Baianus. Dopo questa seconda fermentazione, della durata di 10 giorni circa, il vino viene lasciato sulle fecce fini per altri 20 giorni. Considerato che la vendemmia, in condizioni climatiche normali, è fissata intorno al 10/15 ottobre, se questi tempi di vinificazione vengono rispettati è possibile imbottigliare il Gragnano per metà dicembre e fare in modo che possa essere presente sulle tavole a Natale.
A proposito del Natale, un'altra definizione che si dà al Gragnano è quella di vino del Natale, altro particolare che lo fa accomunare - a torto - al vino novello. E' vero però che il Gragnano si sposa benissimo proprio con tante pietanze locali della tradizione natalizia. Forse proprio per l'allegria che è capace di sprigionare con la sue bollicine evanescenti, forse perchè, da vino semplice, sempre disponibile, mai cupo o altezzoso, nel pranzo di Natale questo vino "minore" recupera una dignità ed un proprio ruolo conviviale, i napoletani a Natale diventano meno schizzinosi e lo portano volentieri sulle loro tavole. Non dimentichiamo, signori, che qui a Napoli, in queste ed altre feste comandate si mangia "davvero"...E non sarebbe neanche troppo semplice accompagnare le tante pietanze con vini solo da degustare, da assaggiare con grazia o con parsimoniosa attenzione.
Ed ecco un'altra caratteristica del Gragnano: "vino da bere", non da tracannare per carità, ma neppur solo da degustare. Ed eccolo il Gragnano sulla tavola dei napoletani, che destreggiandosi tra le più disparate libagioni, aiuta i commensali a buttar giù il "casatiello" e le salsicce, il provolone di Agerola, il capicollo e la mozzarella di bufala, la parmigiana di melanzane e proprio nel giorno di Natale - perchè no - anche gli spaghetti con le vongole, l'anguilla o il capitone, il polpo verace e il baccalà fritto e perfino la spigola all'acquapazza! Nessun vino, come questo, può vantare tanti matrimoni culinari! E, se proprio dovete abbinarlo come Dio comanda, non dimenticate il classico connubio con la pizza napoletana ma, per carità, evitate la pizza con troppo pomodoro o quella col solo pomodoro: rischiereste di raddoppiare la tendenza acida di cibo e vino. Meglio una pizza bianca, con prosciutto e mozzarella, un bel ripieno con ricotta e salame. Meglio ancora l'abbinamento col cd "panuozzo", la più giovane tra le tradizioni di Gragnano: una sorta di panetto di pizza cotto al forno a legna e ripieno di pancetta e provola, assieme a melanzane o peperoni.
Napoletano, 48 anni nel 2007, studi scientifici prima, di giurisprudenza poi. Il lavoro, ormai quasi trentennale, di funzionario amministrativo e...
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